Il tempo della riflessione
Che cosa può fare un artista, oggi, nell’epoca della globalizzazione e dopo i fatti dell’11 settembre 2001 ? Documentare una realtà sempre più complessa attraverso i mezzi espressivi che la storia della cultura gli ha trasmesso, filtrandoli per mezzo della propria sensibilità individuale. Per ottenere questo risultato, Alessandra D’Agnolo partita da uno strumento tecnologico moderno, che per sua stessa natura ha una funzione di documento, la fotografia, rielaborato, tuttavia, da un linguaggio molto antico, la pittura. Il rapporto tra la tecnica e l’arte, certamente, uno degli argomenti più dibattuti dalla critica del 900 e l’innovazione tecnologica attraversa, con un filo di Arianna, il labirinto talvolta indecifrabile della produzione artistica, a partire dalla fine del IX secolo. Ma se, in origine, l’entusiasmo degli artisti per la tecnologia poteva avere una logica progressiva, già con le avanguardie storiche il rapporto si fa problematico e, per cosi dire, “doppio”: il fatto tecnico si pone ciò su due fronti dell’agire artistico, come realtà e coscienza di essa, o, se volete, come oggetto e soggetto, ad un tempo. E’ il caso dei futuristi italiani, che si dannano per trovare un linguaggio che abbracci e ratifichi il nuovo modo di vivere, senza rendersi conto, forse, che esso portava alla società di massa (e allo sterminio di massa). Il dadaismo, invece, in ultima analisi, svela che l’uomo, creatura idealizzata e sublime, non altro che una macchina prevedibile nelle sue funzioni fisiologiche come nei sentimenti. Nonostante il carattere dirompente di tale posizione, la tecnica si innesta sempre più profondamente nel linguaggio dell’arte: Man Ray, ad esempio fu forse il primo ad usare la fotografia come mezzo espressivo autonomo e con un’alta valenza artistica, in grado di giocare un ruolo innovativo anche sul terreno della concezione estetica generale. Ed eccoci tornati alla fotografia, ma se Capa o Ray ne fanno un’arte con un linguaggio proprio e comunque sempre documentario, l’operazione di Alessandra va oltre, supera l’hic et nunc dell’istantanea, e l’intervento pittorico assume una capacita quasi “magica” di travalicare i limiti del tempo presente, di fonderlo con il passato e proiettarlo verso il futuro, nella ricerca di un’immagine senza tempo. L’arte in questo modo, ritorna ad appropriarsi di una delle sue primarie funzioni, la comunicazione di un messaggio, nel tentativo di ricostruire un nesso tra gli uomini e le cose. Certo, la rappresentazione della realtà fornitaci dalla D’Agnolo non appare rassicurante e tantomeno rassegnata: ci offre crudi squarci di vita quotidiana che, per un verso, evocano i fantasmi dell’espressionismo e, per altri, richiamano la mente a certo iper-realismo americano (ma con più anima). E’ la realtà che diventa arte o, talvolta, l’immaginazione che fa diventare tutto arte, in un mondo dove non c’e più purezza e dove tutti i mezzi, tutti i linguaggi si incrociano, si contaminano.
In occasione della mostra presso ‘Galleria d’arte Anna Osemont”, Albissola Marina (SV)
Applicazioni tecniche
Alessandra D'Agnolo parte da un mezzo meccanico, intimamente compromesso con la modernità quale la fotografia e la elabora attraverso un linguaggio tradizionalissimo come la pittura. Ma non è tutto: la pittura infatti, nel caso della D'Agnolo, risulta essere uno strumento quasi magico capace di evocare ciò che non c’è più ma che c’è stato; uno strumento capace di riportare il passato nel presente, un presente oltretutto che sa di passato perché colto in una zona sensibile, dove il trascorrere del tempo non e camuffato dal sistematico maquillage cui il mondo”civile” continuamente si sottopone. L’artista infatti è andata alla ricerca di un deserto e l'ha trovato in un isolotto della laguna veneta, Sacca Sessola. Si tratta di un luogo specialmente delicato dal punto di vista delle relazioni spazio-temporali, un corpo artificiale, edificato piuttosto recentemente (soltanto nel 1860), riutilizzando materiali di scarto ottenuti dagli scavi della stazione marittima di San Basilio. In questo spazio nuovo, poi, sono stati raccolti essere speciali, sottratti al tempo del divenire associato, malati di quella magica malattia cui Thomas Mann ha dedicato il più magistrale die suoi romanzi, la montagna incantata. Qui, esseri viventi sottratti alla vita hanno vissuto fino al 1981. Fino a quando cioè l'isola viene definitivamente abbandonata e consegnata al silenzio ed a un divenire piuttosto spontaneo che i pensatori medioevali con molta sensibilità chiamavano “selva” o “bosco”. Allora, in quanto selva, l'ospedale ha conservato una profonda tragicità, resa più acuta dall'attuale mancanza di senso e di scopo, su cui un improvviso e inatteso scatto della fotografia proietta un fascio di luce livida e fredda.
Un non luogo, insomma, consegnato violentemente all'esigenza, poi alla reclusione infine al silenzio. Un luogo in cui il tempo articola liberamente, senza testimoni, le sue trame, fatte si può dire palpabili dall'abbandono. Mentre la pittura restituisce al passato un'esistenza fantasmatica ed inquietante, ripopolando di corpi gli ambienti abbandonati in barocco disordine, inventando presenze ed appartenenze ad un luogo ed uno spazio che la città ha preferito dimenticare, cioè di atto negare. Se la storia si allontana, in altre parole, la storia più educata e convenzionale, l'arte si avvicina per ristabilire un nesso ed una relazione fra uomini e cose fondata su una cura ed un senso di responsabilità ineguagliabili.
MARTINA CORGNATI
In occasione della mostra presso “Grossetti Arte Contemporanea” Applicazioni Tecniche, Milano
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